Vi proponiamo una selezione di poesie per il papà per omaggiare il genitore in ogni occasione, non soltanto nel giorno a lui dedicato.

Di poesie per il papà ce ne sono tantissime, ma non tutte sono in grado di scavare l’animo umano, di provocare quella sensazione di pelle d’oca che scaturisce soltanto dalle composizioni scritte con il cuore. Vi proponiamo una selezione di componimenti che potete usare all’occorrenza, non soltanto nella giornata ‘istituzionale’ dedicata alla figura paterna.

Le più belle poesie per il papà

Non serve una festa creata ad hoc per festeggiare le persone che si hanno nel cuore, soprattutto quando si tratta della mamma o del papà. Soffermandoci sull’eroe per eccellenza dell’infanzia, il padre, quello che nella maggior parte dei casi salva dai rimproveri della madre, ci sono tante poesie a lui dedicate. Alcune, scritte sia da grandi autori che da nomi minori, sono in grado di far venire la pelle d’oca. Il motivo è presto detto: quando si parla di genitori, difficilmente si può mettere in dubbio il sentimento o aver paura di prendere una delusione. Certo, ci sono sempre delle eccezioni, ma per fortuna rappresentano la minoranza. Di seguito, vi presentiamo una selezione delle più belle poesie per il papà.

Al padre di Salvatore Quasimodo

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
‘Baciamu li mani’. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Tutti i papà hanno il loro fischio speciale di Pam Brown

Tutti i papà hanno il loro fischio speciale,
il loro richiamo speciale.
Il loro modo di bussare.
Il loro modo di camminare.
Il loro marchio sulla nostra vita.
Crediamo di dimenticarcene, ma poi, nel
buio, sentiamo un trillare di note
e il nostro cuore si sente sollevato.
E abbiamo di nuovo cinque anni:
stiamo aspettando di udire
i passi di papà sulla ghiaia del vialetto.

Il pastrano di Alda Merini

Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa
era un pastrano di lana buona
un pettinato leggero
un pastrano di molte fatture
vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo
la sua sagoma ora assorta ed ora felice.
Appeso a un cappio o al portabiti
assumeva un’aria sconfitta:
traverso quell’antico pastrano
ho conosciuto i segreti di mio padre
vivendoli così, nell’ombra.

Papà, radice e luce, portami ancora per mano di Maria Luisa Spaziani

Papà, radice e luce, portami ancora per mano
nell’ottobre dorato del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano, strillavano:
fra cinquant’anni ci ricorderai.

Padre e figli

Padre di Edgar Albert Guest

Sapevo che era il miglior papà
che qualunque ragazzo
potesse avere: era buono,
gentile, divertente, allegro,
lavoratore e anche paziente;
severo qualche volta con le
mie superficialità e le mie
manchevolezze infantili, ma
severo sempre a buon fine e
molto orgoglioso dei suoi
figlioli ogni qual volta facevano
qualcosa di buono.
Quello che non ho saputo capire
finché non è stato troppo tardi,
era la profondità della sua saggezza
e l’immensità del suo sacrificio.

Un ricordo di Giovanni Pascoli

Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d’agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino. La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l’un dopo l’altro tutti quattro i tonfi
dell’unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo”.
E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna
prestino”. “Sai che volerò!” “Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma”.
“Eh! mi vuol bene!” “Addio”. “Addio”. “Vai solo?
non prendi Jên?” “Aspetto quel signore
da Roma…” “È vero. Ti verremo incontro
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando”. “Io vi vedrò”.
E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: “Babbo…”
“Che hai?” “Ho, che leggemmo nel giornale
che c’è gente che uccide per le strade…”
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei. Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!
E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l’ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: “Addio!” Mia madre
s’appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.
Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: “Papà! Papà! Papà!”
E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v’avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutto ancora non chiudeva a modo.
Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: “No! no! no! no! no!”
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch’era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.
“Non vuoi che vada?” “No!” “Perché non vuoi?”
“No! no!” “Ti porto tante belle cose!”
“No! no!” La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:
“No! no! papà! no! no! papà! no! no!”
Non s’udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.
Più non raspava i ciottoli con l’unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba. E le tortori, hu, hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: “Non partirò più”.
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: “Non vado: entro; mi muto,
e sto con te. Perché tu sia sicura,
prendi la canna”. Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?
Sorella, a volte penso che tu l’abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, ché tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: “Papà! Papà!”

Padre, se anche tu non fossi il mio di Camillo Sbarbaro

Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
Che la prima viola sull’opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

C’è un uomo grande di Roberto Piumini

C’è un uomo grande:
gli faccio domande.
C’è un uomo grosso:
gli salto addosso.
C’è un uomo attento:
gli soffio il vento.
C’è un uomo quieto:
gli dico il mio segreto.
C’è un uomo in casa mia
che mi fa compagnia.
Chi è? Chissà?
È il mio papà!

Prima che nascessero i papà di Vincenzo Riccio

Prima che nascessero i papà
il mondo era quadrato:
non c’erano le piante,
neppure un albero di cioccolato.
Il sole non riusciva neppure a tramontare
visto che ancora non sapeva rotolare.
I prati non avevano l’erba dipinta,
e i petali dei fiori avevano una faccia stinta.
Se guardavi il cielo vedevi solo nero,
tutto il mondo era scuro e serio serio.
Ma poi è arrivato il mio papà.
Ha arrotolato il cielo intorno al mondo,
ha insegnato al sole a rincorrere le stelle,
e perché la notte non facesse poi paura al suo bambino
ha acceso in cielo un faro e qua e là qualche lumino.
Ha regalato note anche agli uccelli,
e tra i rami degli alberi ha legato solo sogni belli.
Tutto questo ha fatto per me il mio papà.
Ma so, che per il mio amore,
sta costruendo un mondo ancora migliore.

I padri sono figli di John Steewart

Una delle cose più belle dell’essere padre è
che non bisogna smettere di essere figli.
In effetti non c’è scelta.
I padri sono figli: entrambi soggetto e predicato,
che si godono il privilegio di essere due, in uno.
II padre-e-figlio fortunato può trovare
sostegno in due direzioni: saggezza, forza
e compassione nel padre, intuito e gioia nei figli.
Il bambino può essere padre dell’uomo, e se guardi
da vicino negli occhi di tuo figlio, probabilmente
vedrai gli occhi di tuo padre che ti restituiscono lo sguardo.

DONNAGLAMOUR ULTIM'ORA

ultimo aggiornamento: 8 Febbraio 2024 17:45


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